Riflessioni su percorsi e idee nella Medicina del Dolore
Riflessioni su percorsi e idee nella Medicina del Dolore
#39CongressoAISD Associazione Italiana per lo Studio del Dolore
Sono numerose in letteratura le riflessioni per un'aggiornata visione della Medicina del Dolore. Ne presento qui alcune, anche di strettamente personali.
La prima riguarda l'inserimento del dolore cronico nell'ambito delle malattie non-comunicabili (NCDs). La definizione di NCDs si riferisce a patologie non trasmissibili (non-comunicabili sensu strictu – vedi malattie cardio-vascolari, diabete, insufficienza renale), ma certamente non sfugge a un'approfondita considerazione il fatto che il dolore cronico – considerato finamente una malattia with own rights – rappresenti una condizione morbosa che, anche alla luce di una conquistata collocazione nosografica, rappresenti un fattore di rischio per molteplici secondarierà – e non solo per un evidente riflesso sulla qualità della vita – con conseguenze quoad valetudinem e addirittura quoad vitam. Il termine "non-comunicabile" si deve riferire al fatto che, ancora oggi, il dolore cronico resta confinato in un limbo di incertezze operative e di scarsa valutazione nella pratica clinica quotidiana (Coaccioli S. et al. 2016, submitted), a fronte addirittura di chiare disposizioni di legge (vedi la Legge 2001 su "Ospedale-Territorio senza Dolore" e la Legge 38/2010).
La seconda riflessione concerne un panorama di Pazienti che appare sempre più diversificato e multiculturale. È evidente che la descrizione del dolore (cronico, in particolare), così come la sua percezione, insieme al significato che al dolore viene attribuito e agli obiettivi che il Paziente si prefigge di ottenere dalla terapia sono – tutti – culturalmente specifici, nonché antropologicamente ed etnicamente diversi. Emerge allora che la valutazione, strettamente personale, e i determinanti del dolore cronico risentano di differenze culturali in senso lato e ampio, delle quali il Clinico non può non tener conto nell'approccio diagnostico, così come nella pianificazione di una strategia terapeutica (Coaccioli S. on personal file). Sono dunque necessari studi e ricerche di contesto, in uno scenario all'interno del quale il Clinico sia in grado di interpretare le dimensioni etniche e culturali nel management del dolore.
Deve essere rivisto inoltre, ciò che definiamo dolore cronico diffuso (DCD) con particolare riferimento a quella sindrome complessa chiamata fibromialgia. Per il DCD, per esempio, la stessa prevalenza appare affatto diversa qualora vengano utilizzati criteri diversi (Pain 2016;157:541). Questa disparità si riflette, per esempio, sulle indagini epidemiologiche, ma comporta anche risultati non comparabili, che sono presentati in pur eccellenti studi che corrono il rischio però di rimanere, nel contempo, fini a sé stessi e limitati ad un ristretto contesto territoriale e a uno scenario limitato e non comparabile con altri. La fibromialgia, in questo ambito, è sottoposta a due rischi sostanziali: il primo può comportare una sovra-diagnosi – nel momento in cui ci si limiti all'applicazione dei criteri diagnostici, pur validati; il secondo rischia invece, una sotto-diagnosi – quando, anche a fronte di una minore aderenza ai citati criteri, non si tenga conto anche, e forse soprattutto, del profilo culturale e ambientale, psicologico ed affettivo del Paziente.
Un'altra considerazione sorge a commento di un'affermazione (Wanzer SH et al. NEJM 1989;320:844): "the proper dose of pain medication is the dose that is sufficient to relieve pain and suffering ... to allow a patient to experience unbearable pain or suffering is unethical medical practice". È solamente l'intensità del dolore che deve guidare la nostra pratica clinica? E dunque, i tentativi e le strategie terapeutiche per la riduzione del dolore sono e rappresentano il solo obiettivo della nostra azione terapeutica? Credo di no. E lo credo proprio alla luce di due considerazioni. La prima è seguito logico di una riflessione sul multiculturalismo – del quale si è fatto cenno in queste righe – la seconda emerge dalla necessità che il Paziente e il Clinico stringano una vera e propria alleanza che va oltre il concetto di compliance di un Paziente alle indicazioni ricevute e della stessa aderenza a una terapia quale si voglia. L'intensità del dolore, allora, è parte – e solo parte – di un quadro complesso ed articolato con il quale è necessario confrontarsi, ma, allo stesso tempo, nel quale appare indispensabile immergersi, allo scopo di comprendere fino in fondo il Paziente, le sue valutazioni personali e le sue aspettative, le sue paure e le sue necessità.
Chiudo queste considerazioni, augurando alla nostra Associazione Italiana per lo Studio del Dolore un percorso – iniziato ben 40 anni or sono – sempre più sostenuto dalla ricerca scientifica, ma sempre più caratterizzato dal maggiore interesse per i Pazienti che richiedono non solamente il frutto del nostro studio, ma soprattutto la nostra passione per la Clinica e per la Medicina del Dolore.
Prof. Stefano Coaccioli - Presidente-Eletto AISD per il biennio 2018-2020
Clinica Medica-Reumatologia e Terapia Medica del Dolore
Università di Perugia - Azienda Ospedaliera-Universitaria di Terni
22 maggio 2016
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