PTDA Abruzzo per il paziente oncologico con dolore

PTDA Regione Abruzzo per il paziente oncologico con dolore

Pubblicato il percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PTDA) della Regione Abruzzo per il paziente oncologico con dolore non in fase avanzata di malattia, con un documento condiviso dai rappresentanti dei sindacati dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, palliativisti e oncologi.

Il documento, disponibile online nel Bollettino Ufficiale della Regione Abruzzo, evidenzia il ruolo essenziale di ogni figura professionale per la gestione del malato oncologico fin dagli inizi della malattia. La Regione Abruzzo incoraggia con disposizione precise un nuovo contesto collaborativo per favorire l'accesso agli utenti ai servizi di assistenza regionali.
La dottoressa Emilia Varrassi, giovane specialista in radioterapia che attualmente lavora a Manchester, presso il Christie NHS Foundation Trust (un ospedale oncologico che cura più di 44.00 pazienti l'anno), lo ha letto per noi e ci riassume i punti essenziali.

Tre i punti fondamentali trattati nel documento:
- gestione multidisciplinare del malato
- chiarezza nella condivisione con il malato della prognosi
- introduzione precoce delle cure palliative o di supporto.

Gestione multidisciplinare del malato
Finalmente viene riconosciuta l'importanza di un simile approccio a garanzia della qualità delle cure ricevute. Nel documento non viene chiaramente esplicitato, ma un simile approccio costituisce anche una garanzia per i professionisti della salute che vedono tutte le loro azioni confortate dal supporto e dall'approvazione dei colleghi di altre specialità. In medicina, purtroppo, molto spesso gli interessi privati oltrepassano quelli del paziente che, fondamentalmente, è l'unica ragione della nostra professione. Cimentarsi in riunioni multidisciplinari obbliga i vari specialisti a conoscere le evidenze dietro la loro quotidiana pratica clinica e a sapere, quindi, se la terapia che offrono è la migliore o no. Mi viene in mente l'esempio dei pazienti con tumore iniziale prostatico: le evidenze dicono chiaramente che al di sopra di una certa fascia di età e per i pazienti che presentano una malattia poco aggressiva, è possibile optare per la sorveglianza attiva. Quanti sono i centri in Italia che optano per questa possibilità? Magari la spiegano brevemente al paziente, ma fino allo scorso anno l'unico centro in Italia che aveva un serio programma di sorveglianza attiva era lo IEO.
L'obbligatorietà della gestione multidisciplinare del malato consente anche una più precoce attivazione del percorso assistenziale, perché vengono meno tutti i tempi morti dovuti alla prenotazione delle visite, alla revisione dei vetrini e delle immagini ecc. Tutto avviene contestualmente e con la supervisione di un centro di riferimento che garantisce la qualità del servizio assistenziale offerto. Viene quindi elaborato un documento a valenza legale che viene trasmesso al MMG per conoscenza e al paziente. I dati inclusi in tale documento non sono minimamente "velati", per risultare meno traumatici per il paziente. Magari il paziente non conosce il significato di tutte le parole, ma avrà modo di discutere di tutto il percorso terapeutico con il primo specialista che incontrerà.
E questo porta al secondo punto.

Chiarezza nella condivisione della prognosi con il malato
Ogni volta che tendiamo a "indorare la pillola" lo facciamo perché fondamentalmente non ci va di rovinarci la giornata a consolare un paziente terminale e, spesso con maggiori difficoltà, i familiari. Non vogliamo essere noi i cattivi di turno a togliere le speranze, ma ho scoperto e sperimentato personalmente che la chiarezza può essere benefica per il paziente e può rafforzare il rapporto di stima tra sanitario e malato. Bisogna saper comunicare e bisogna sapere essere empatici e non dire mai "non c'è più niente da fare". Ci sono milioni di altre cose necessarie da fare. Recentemente, per esempio, ho avuto una simile conversazione con una giovane sfortunata con un tumore localmente avanzato della cervice uterina. Purtroppo non ha avuto una risposta brillante alla radio-chemioterapia e per questo si è deciso, in modo multidisciplinare, di avviarla alla chemioterapia di seconda linea. A me è toccato, purtroppo, doverle dare la notizia. Questa giovane paziente si è presentata da me infuriata perché nessuno le aveva detto che la sua terapia sarebbe cambiata, ma quando ci siamo salutate era sollevata e rasserenata, e ben disposta ad affrontare le prossime difficili tappe della terapia. Come ho fatto? Semplicemente le ho spiegato quello che era successo, cioè che la terapia non stava dando i benefici che NOI ci aspettavamo e che NOI volevamo proporle di tentare INSIEME un'altra strada, ovvero la chemioterapia. Ho messo in maiuscolo alcune parole che sono state fondamentali durante la conversazione con la paziente e con sua madre: la donna si è sentita inserita in una squadra terapeutica che ha come unico obiettivo la sua salute. Ovviamente le ho ripetuto due volte tutto il discorso e le ho chiesto di chiamarmi, se avesse avuto delle domande da fare e le ho consegnato del materiale da leggere sulla chemioterapia. Quando le ho detto che il tumore non si era ridotto come speravamo mi ha chiesto se era cresciuto ed ha provato sollievo nel sapere che non era così. Nella lettera che ho scritto al MMG ho raccontato tutta la conversazione avuta con la paziente e quello che era lo scopo del trattamento, ovvero che eravamo passati da uno scopo "curativo" a uno "palliativo".
E questo ci porta al terzo punto.

Introduzione precoce delle cure palliative e di supporto
Presso l'ospedale dove lavoro, quando dimettiamo un paziente terminale o avanzato, parte automaticamente una lettera alla medicina del territorio, molto spesso coadiuvata da personale pagato esclusivamente dalle onlus, in cui chiediamo l'attivazione delle cure domiciliari. Naturalmente il paziente ha già avuto modo di conoscere le figure professionali che lo assisteranno a casa durante la sua degenza in ospedale o durante le varie visite con gli specialisti. Le figure professionali di supporto (infermieri, fisioterapisti, ecc.) prendono parte anche alle riunioni multidisciplinari e prontamente attivano delle visite in ospedale per conoscere i pazienti quando loro sono ancora in grado di venire in ospedale. Rivedere poi queste stesse persone a casa per le medicazioni o per cambiare la terapia è per il paziente come rivedere una persona che hanno conosciuto quando stavano meglio.
Sicuramente c'è molto da fare, ma sicuramente e per fortuna si può fare!

Emilia Varrassi

24 luglio 2015

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